Proponiamo un articolo presente nella rivista di Ristretti Orizzonti (Anno 20 Numero 5 settembre-ottobre 2018), un periodico di informazione e cultura dal Carcere Due Palazzi di Padova. Queste parole sono scritte direttamente da una ragazza, figlia di una persona condannata all’ergastolo ostativo, che in maniera diretta ci racconta la complessità e la sofferenza di un rapporto genitoriale, che nasce e cresce all’interno di un Istituto Penitenziario.

L’ergastolo ostativo, secondo la legge italiana, è una misura eccezionale, applicata a chi ha commesso reati con l’aggravante mafiosa nell’atto. È un tipo di pena, più vicina alla condanna a morte; è una sorta di limbo, per chi non ha più nemmeno la speranza che un giorno sarà libero di uscire ma aspetta la fine dei suoi giorni dietro le sbarre. Questa pena è nata in un clima di terrore e paura, in Italia, un periodo nero, di stragi, che ha segnato il nostro Paese e la coscienza di tutti gli italiani, è stata una clausola aggiunta ad una pena pesante, è una pena ostativa, cioè che ostacola ogni possibilità di beneficio anche dopo una lunghissima carcerazione, impedisce persino quel bagliore di speranza a colui che ha davvero capito i suoi errori e sconta in silenzio le sue lunghe pene. Ciò che io penso è che prima di applicare l’ostatività alla pena dell’ergastolo, si debba conoscere la persona reale, e la sua storia. Prima di uccidere totalmente ogni speranza in lui e nella sua famiglia, bisognerebbe analizzare quella persona, oltre che la sua situazione giudiziaria.
Io scrivo questo articolo come figlia di un condannato all’ergastolo. Mio papà si chiama Gianfranco R., entrò in carcere nel 1994, ben 24 anni fa, cioè più di due decenni, cioè quasi un quarto di secolo; e questo è per far capire da quanto tempo dura la sua carcerazione, senza essere mai uscito nemmeno un giorno, nemmeno un’ora in tutto questo tempo. Gli anni sono passati e non solo si sentono ma si vedono anche addosso, mi lasciò col pannolino e ora ho quasi fatto i capelli bianchi. Sono stati e sono ancora anni difficili, per la nostra famiglia, le difficoltà nel mantenere i nostri rapporti sono state enormi, siamo reduci da 7 anni di 41-bis. Dal 1999 al 2006 sono stata in compagnia di mio padre per solo 84 ore in 7 anni. Facevo le elementari e mi mancava molto il mio papà, ci scrivevamo tante lettere, e quell’ora al mese che ci vedevamo era davvero importante. Facevamo circa tre giorni di viaggio tra andata e ritorno da Cuneo, per vederlo e parlare un’ora insieme, con lui, che era dietro un vetro blindato, e il colloquio si svolgeva dentro una cabina tutta bianca con le sedute in marmo, e a Cuneo in inverno fa molto freddo. Nelle difficoltà ci siamo sempre più uniti, e nonostante lui fosse isolato da noi e dal mondo, i nostri pensieri erano vicini. In questo periodo papà si avvicinò allo yoga e alla meditazione, iniziò a vedere di più con la mente che con gli occhi. Dal 41-bis, siamo poi passati alle sezioni EIV (Elevato Indice di Vigilanza, oggi Alta Sicurezza 1) e mi fece quasi strano, quando per la prima volta vidi le gambe di papà, dopo che per anni mi ricordavo solo il suo busto. Fu così bello poterlo riabbracciare dopo tanti anni! La carcerazione di mio papà con la mamma la sentiamo tanto, lui la vive in prima persona, ma per la proprietà transitiva, la viviamo anche noi sulla nostra pelle; ogni condanna che hanno dato a lui, per noi due sono stati duri colpi. La sentenza del 2012, che lo vide condannato ad un ergastolo, fu per noi tre un macigno pesante, un dolore all’anima, e nonostante cercavamo di farci forza a vicenda, la situazione precipitò quando echeggiò l’ostatività della pena. Ignara io, di cosa fosse questo aggettivo attribuito a tale condanna, quando me ne resi conto, ebbi solo lacrime e frustrazione per non so quanto tempo. Dopo anni vissuti nella speranza che papà ritornasse a casa, e dopo aver passato ogni Natale, Capodanno, compleanno e qualsiasi altra ricorrenza, sperando dentro me che la prossima ci sarebbe anche stato papà, un colpo del genere per me era surrealmente crudele, un incubo che diventava reale. Il “fine pena mai” lo sentii come l’infrangersi del mio desiderio più grande, lo sento ancora come il distruttore delle mie speranze di poter avere finalmente l’idillica presenza di mio papà in casa, poter essere la famiglia che ho sempre bramato nel mio quotidiano. Quante stelle cadenti ho guardato, esprimendo sempre lo stesso desiderio, quante volte da bambina, al suono improvviso del citofono, pensavo fosse papà! Da piccoli c’è sempre un enorme senso di speranza, il mio papà era lì in prigione, ma sapevo che era una situazione temporanea, che sarebbe ritornato a casa da un momento all’altro, facendomi una sorpresa. Una Pasqua, potevo avere all’incirca 4 anni, ricevetti un uovo pasquale enorme, grande talmente tanto da poter esserci dentro una persona, e mio papà non è nemmeno altissimo, quindi ero fermamente convinta che all’interno come sorpresa ci fosse stato lui. Rimasi così delusa che nemmeno volli mangiare poi quel cioccolato. Il mio unico desiderio era ed è il ritorno a casa di papà. L’echeggiare di una pena come l’ergastolo ostativo è la fine catastrofica di un desiderio al quale sono rimasta aggrappata per anni, che mi ha dato e continua a darmi la forza di andare avanti. Ci credo ancora fermamente: Papà ritornerà a casa. Questo è il desiderio di una figlia che ha avuto la mancanza fisica di un padre per la maggior parte della sua vita, solo mentalmente la presenza di mio papà è vivida e tangibile, è da quando imparai a leggere l’orologio che alle 15:00 in punto, di tutti i giorni da allora, lo penso e lui pensa me, questo era il modo per sentirci più vicini quando era a Cuneo al 41-bis. Sono passati tanti anni da quando questa sventura ebbe inizio, e il loro peso si sente, è passata la mia infanzia, l’adolescenza e l’età adulta avanza; ho preso la laurea, mi sono abilitata alla mia professione, sono fidanzata, e la mia vita va sempre avanti, con gli sforzi, i sorrisi, e gli incoraggiamenti di mamma e papà, ma nonostante io mi senta appagata, manca SEMPRE qualcosa, manca il mio papà! L’ergastolo ostativo è uccidere il detenuto e tutta la sua famiglia nello spirito, è una tortura psicologica a chi vuole camminare sul giusto percorso di vita, a chi è consapevole dei suoi errori e li sta scontando, a chi desidera una seconda chance, l’ergastolo ostativo è l’iniezione letale a chi vorrebbe guarire dai propri sbagli. Da quando seppi di questa pena, nella mia testa si formulano sempre le stesse domande: Ma perché la giustizia non dovrebbe essere giusta con chi vuole stare nel giusto? Chi espia le proprie pene perché non può avere un’altra possibilità in questa società? Perché uno stato civile che ha abolito la pena di morte invece vuole uccidere implicitamente chi amaramente ha fatto i suoi errori e li sta scontando? Si può escludere l’ostatività, solo se di diventa collaboratori di giustizia, ma ci sono casi in cui la collaborazione è inutile, perché chi è dentro lo è da così tanti anni che tutto ciò che era atto di reato, è già stato a processo. Una persona, come mio padre, che sono 24 anni che è detenuto, è dal 1996 che professa il suo diritto alla dissociazione, si è dissociato da tutto ciò che lo ha “rovinato”, si è dissociato dalle sue amicizie sbagliate, dai suoi errori, ha sempre affermato che era giusto che lui scontasse i suoi errori, e questi li ha pagati ben cari. Ha ricevuto valanghe di accuse, da differenti collaboratori, è stato messo in mezzo a non so quanti processi, e quando le assoluzioni, al termine di molti, trionfavano, ecco che arrivò l’ergastolo “fine pena mai”. Il solo pensiero ogni volta è un tonfo al cuore. Eppure io penso che ogni uomo merita una seconda possibilità, il mio papà ha sbagliato e sta pagando con la sua libertà (il bene più prezioso che un uomo possa avere), ma non dovrebbe pagare con la sua vita! Dovrebbe avere la possibilità di essere riammesso nella società; una società ormai così profondamente cambiata da quando lui l’ha lasciata, e questa sua “alienazione obbligata”, cambierebbe qualsiasi uomo, disposto a volerne far parte nuovamente, per godere di quei momenti di gioia che solo un uomo libero può cogliere, circondato dall’amore della sua famiglia. Nonostante tutto, io credo ancora nella giustizia e ho fiducia in essa, io credo nell’umanità dello stato italiano, mi auguro che ci si renda conto che l’ostatività non può essere applicata ad una pena quale l’ergastolo, poiché un condannato a tale pena è ostativo ad ogni forma di beneficio giudiziario, quindi è escluso dalla possibilità di essere un cittadino libero, e questa non è giustizia a seguito di un errore ma è una ghigliottina moderna, è mandare al patibolo la speranza di una figlia, di una moglie, di una madre che aspetta malinconica il ritorno della persona a cui vuole bene. Eppure io ci credo e ci spero ancora che qualcosa cambierà, perché uno Stato in cui nei suoi tribunali è affissa la frase LA GIUSTIZIA È UGUALE PER TUTTI non può abolire la condanna a morte per poi applicare l’ergastolo ostativo, e se è ingiusta la pena di morte fisica, lo è ancor di più quella morale.